Nato il 27 novembre 1956, giovane talento della Roma calcistica, Manfredonia cresce in una società del rione “Camilluccia”, la Don Orione. La Lazio lo preleva, intuendone le enormi possibilità tecniche ed atletiche, e lo fa esordire in serie A il 2 novembre 1975, allo stadio “Olimpico” contro il Bologna. Corsini, l’allenatore di quella Lazio, ha subito fiducia in quel ragazzo che se la cava egregiamente come mastino difensivo, ma sarà con Vinicio, che esploderà definitivamente.
«Un’emozione unica, la più forte in assoluto. All’ “Olimpico”, di fronte alla mia gente. Doveva ancora compiere diciannove anni. Merito dell’allenatore. Ebbe un gran coraggio. Mi dette il numero quattro e mi mise a fare il libero, al posto di capitan Wilson. Un battesimo di fuoco, niente male, se pensa che quella squadra nel 1974 aveva vinto il campionato».
Con la maglia biancoazzurra ha totalizzato complessivamente 233 partite (segnando 10 goal). Della squadra capitolina diventa immediatamente un simbolo, grazie anche alla sua duttilità che gli consente di ricoprire più ruoli.
Nel 1976, come stopper, il giovane laziale esordisce anche in Nazionale, nella Under. L’anno dopo lo chiama Bearzot nella Nazionale maggiore. Giocherà in azzurro soltanto 4 partite, la prima contro il Lussemburgo (3 dicembre 1977), nel ruolo di libero. Nel 1978 Manfredonia figura tra i convocati per il mondiale argentino. Ha ventidue anni e, come spiega lui, una voglia matta di giocare; non trova spazio: nemmeno un’apparizione, così ci resta male. Se la prende, piuttosto esplicitamente, con il Commissario Tecnico:
«A tradirmi fu la mia impulsività. Bearzot mi aveva convocato per la prima volta nel 1977 e mi aveva portato al mondiale in Argentina, spiegandomi che sarei stato la riserva di Bellugi. Quando Bellugi si infortunò il mister fece però entrare Cuccureddu, io ci rimasi male e l’affrontai a muso duro. “Non sono venuto sin qui per fare il turista”, gli dissi, “ed in avvenire eviti di convocarmi se poi non mi fa giocare”. Lui mi prese in parola e la mia breve esperienza azzurra si chiuse».
L’anno dopo Lionello, si fece invischiare nella celebre (ed amara) storia del calcio-scommesse. Con l’amico Giordano viene squalificato per tre anni e mezzo. Torna in campo, grazie all’amnistia concessa per la vittoria del Mondiale 1982, dopo due stagioni di penitenza. La lezione gli è servita e cambia totalmente vita.
«È stato un periodo abbastanza doloroso durante il quale, però, sono riuscito a laurearmi; inoltre, ho continuato gli allenamenti, come se nulla fosse accaduto cosicché, una volta rientrato, ero a posto anche dal punto di vista fisico. Sicuramente non è stato facile, per cui non auguro a nessuno di trovarsi in una simile situazione. È stato un incidente di percorso. Frequentazioni sbagliate, personaggi discutibili. Come tanti miei compagni della Lazio, anch’io andavo al ristorante di Alvaro Trinca. Sono finito anch’io nella rete, senza grandi responsabilità. Non ho mai scommesso sui risultati della mia squadra, per esempio. Ma la mia difesa è servita a poco: mi sono beccato una lunga squalifica. Questo è quello che conta».
Nel 1984 il passaggio in bianconero sembra fatto, ma il trasferimento sfuma. Bisogna attendere ancora un anno. Lionello arriva nell’estate 1985, quando Boniperti promuove un rinnovamento piuttosto radicale. A centrocampo manca Tardelli, passato all’Inter, e sulla grinta dell’ex-laziale ricade una enorme responsabilità, in quanto solo in rare occasioni ha rivestito il ruolo di centrocampista. «Non devo raccogliere l’eredità di nessuno», risponde quando gli chiedono di Tardelli, «Marco è un fuoriclasse, non sono e non sarò mai la sua controfigura. Oltretutto, giocherò in una posizione diversa; lui giostrava sulla destra, io dovrò coprire la fascia centrosinistra del campo».
Manfredonia è galvanizzato e non vede l’ora di cominciare la sua nuova avventura: dopo tante attese, e molte sofferenze nella Lazio del post-scudetto, il centrocampista romano insegue e conquista a Torino il suo primo scudetto.
«Sono alla Juventus per vincere», dice il giorno del raduno, «ho l’età giusta per provare emozioni e soddisfazioni nuove e diverse. Per anni ho lottato per la salvezza, non per lo scudetto; adesso posso finalmente puntare a traguardi importanti, veri».
Lionello fornisce un contributo fondamentale al record delle otto vittorie iniziali consecutive ed alla conquista della Coppa Intercontinentale a Tokyo. La Juventus gli ha restituito antichi splendori, il fisico è intatto e resistente, lo ha maturato psicologicamente, tanto da fargli dimenticare le antiche amarezze e gli errori che non ha mai negato di avere commesso.
Manfredonia si rivela un prezioso motore di centrocampo, ideale supporto a Bonini; soltanto nel girone di ritorno, complice qualche squalifica di troppo ed un infortunio alla costola, il suo rendimento cala.
Nel campionato successivo, a ventinove anni, Manfredonia gioca alla grande tre quarti di stagione: così bene che si parla di un clamoroso rientro in azzurro. Con Bearzot la pace formale è siglata, ma i giovani premono e ritrovare lo spazio perduto è difficile. Lionello deve accontentarsi (si fa per dire) di essere ormai uno dei pilastri della nuova Juventus. Con Giordano è tornato amico.
«Sono state scritte un sacco di fesserie su di noi. Da ragazzi eravamo inseparabili. Poi, i rapporti si sono un po’ diluiti, anche per alcune incomprensioni. D’altronde, si cresce, cambiano le esigenze, ci sono le famiglie. Quello che conta è che l’amicizia resista ancora oggi. Ognuno di noi sa che quell’altro c’è».
Lionello è laureato in giurisprudenza ed è uomo di indubbia esperienza, Carolina, deliziosa compagna, gli ha dato tanto amore ed un figlio, Andrea Giorgio.
«Non credo di essere stato un fuoriclasse del pallone, ero solo un ottimo giocatore ed avevo grinta e carattere. Mi ha pure giovato l’adattabilità a ruoli diversi; nella primavera laziale giocavo a centrocampo, in prima squadra diventai stopper e nella Juventus tornai centrocampista. Il mio rammarico? Non essere andato alla Juventus dieci anni prima: a volermi era Gianni Agnelli in persona, che per me s’era preso una specie di cotta calcistica e che incaricò Boniperti di trattare il mio acquisto. Avevo solo vent’anni e non volevo allontanarmi da Roma, fu un errore di cui non mi sono mai pentito abbastanza.
Nel 1985 arrivai a Torino con l’impegnativo incarico di sostituire Tardelli; un’eredità che si rivelò meno pesante del previsto perché mi ambientai subito bene, nella società, nella squadra e nella città; disputai due grandi stagioni.
La sera del “Bernabeu”, quando annullarono il mio validissimo goal del pareggio, Platini di disse: “Ha fatto bene l’arbitro a fischiare. Se tu avessi segnato al Real Madrid sarebbe finito il calcio!”
Al ritorno, al momento di individuare i rigoristi, non rimase nessuno. Erano spariti tutti. Andai anch’io dal dischetto, con Brio e Favero. Ma dagli undici metri sono sempre stato un debole. Non riuscivo a mantenere la freddezza necessaria. Peccato, perché così uscimmo dalla Coppa dei Campioni. Ci tenevo moltissimo ad arrivare fino in fondo.
Me ne andai per colpa del mio orgoglio ed anche di Boniperti, che mi propose di rinnovare il contratto stagione per stagione. Io avevo già superato la trentina e pretendevo un contratto triennale, quando me lo propose la Roma, accettai».
Nell’estate del 1987 ritorna a Roma, sponda giallorossa, dove terminerà la carriera il 30 dicembre 1989 quando è colto da un arresto cardiaco sul campo del Bologna, rischiando seriamente la vita.
«Ricordo il viaggio Roma - Bologna con il “Pendolino”. Una scelta diversa dal solito, il treno non si prendeva quasi mai per le trasferte. Quindi, il ritiro, la preparazione della partita, cose normali, consuetudinarie. Poi, c’è un buco di due, tre giorni, quando mi sono svegliato dal coma in ospedale. Nei primi bollettini medici si è parlato di infarto, ma la diagnosi vera è arresto cardiaco. È andata così, senza che ci fossero segni premonitori.
Quando ho riaperto gli occhi, la prima persona che ho visto è stato il mio amico ed ex compagno di squadra, Fulvio Collovati. In quei giorni, oltre ad i miei famigliari, so che sono venute tantissime persone a farmi visita. Cabrini passò lì la notte di San Silvestro. Sono rimasto molto colpito da tanti gesti di amicizia e solidarietà. Non me l’aspettavo.
Quella domenica faceva molto freddo ed io avevo un po’ di febbre. In più, avevo accumulato quantità enorme di stress, senza dimenticare che poco tempo prima era morta mia madre. Credo che sia stato un insieme di cause perché mai prima di quel giorno avevo avuto problemi cardiaci, né di altro tipo. Devo la vita al fatto che ci fosse un defibrillatore a bordo campo, fatto eccezionale per quell’epoca. E poi ai medici e massaggiatori di Roma e Bologna ed ai dottori dell’ospedale “Maggiore” di Bologna, in particolare Giorgio Rossi, che mi ha praticato la respirazione bocca a bocca, ed il dottor Naccarella che mi ha attivato il cuore al quinto tentativo.
Per fortuna, ho recuperato molto velocemente. Sono tornato a vivere presto. Sono rinato come persona, quello sì, ma sono morto come calciatore, purtroppo. Mi rode che mi abbiano impedito di giocare. Stavo benissimo, ero tranquillo ed avevo una voglia matta di pallone. Mi hanno fermato i medici, ma io ero pronto a prendermi tutte le responsabilità pur di non smettere di giocare. Quello di Bologna è stato un episodio. Ho sempre fatto vita da atleta. Mai fumato né bevuto».
Smessi gli scarpini da calcio, intraprende la carriera di dirigente sportivo, con alterne fortune.
Fabio Carullo tramite tuttojuve.com
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